Milano, 16 maggio 2004, 34esima giornata di campionato, minuto 84. In campo Milan e Brescia sono sul risultato di 4-2 per i rossoneri. La palla va fuori e il quarto uomo alza la lavagna luminosa. La sostituzione è per la squadra ospite; tutto lo stadio trattiene il fiato. Improvvisamente un sogno artistico di sublime poesia cessa il suo viaggio onirico. Gli ottanta mila di San Siro iniziano ad applaudire lasciando che le lacrime righino i propri volti. In campo il capitano dei rossoneri si disinteressa di quello che accade intorno a lui per andare incontro all’avversario richiamato in panchina. Il calciatore o meglio l’artista in questione, ha la numero 10 dietro la schiena e una fascia da capitano colorata al braccio.

Quel calciatore nacque il 18 febbraio del 1967 a Caldogno, in provincia di Vicenza. Le sue qualità tecniche lo portano a bruciare le tappe e già a 16 anni fa il suo esordio con la Lanerossi Vicenza, in quegli anni in Serie C1. La sua terza stagione nel calcio dei grandi, quella del 1984/85, termina con 12 gol in 29 partite. A porre fine a quel campionato, però, è un grave infortunio al ginocchio: rottura del crociato anteriore e del menisco; aveva appena 18 anni. Durante la fase di riposo forzato e quindi di incertezza sulla propria carriera di calciatore, vive una profonda crisi personale e spirituale che lo convince ad abbracciare definitivamente la fede buddhista. Troppo educato il suo modo di accarezzare la palla per rimanere nei campi di provincia e così, nonostante l’infortunio, la Fiorentina decide di onorare il contratto firmato col ragazzo proprio due giorni prima dello sfortunato episodio. La prima stagione con la maglia viola scorre via senza che se ne accorgesse, totalmente preso dal lavoro di recupero. Non fa in tempo a tornare in campo che una lesione del menisco lo costringe a sottoporsi ad una nuova operazione. Il suo primo gol nel massimo campionato arriva su punizione il 10 maggio 1987 contro il Napoli (1-1); pareggio risultato fondamentale per la salvezza della sua squadra.

Dalla stagione successiva, quella del 1987/88, finalmente il ragazzo di Caldogno può trovare quella continuità necessaria per imporsi nel grande calcio. Lo fa con la maglia della Fiorentina sino al 1990, anno in cui passa alla storica rivale: la Juventus. In bianconero scriverà alcune tra le pagine più belle del calcio italiano, arrivando a vincere il Pallone d’oro nel 1993. È l’anno in cui il ragazzo lascia il passo all’uomo che deve guidare i suoi compagni verso le mete più ambite. La fascia di capitano è l’ovvio riconoscimento per un ragazzo che ha dovuto fare i conti con cicatrici profonde sin dal principio. Proprio in quel principio, come detto, ha trovato forza nella sua nuova fede e così, quel simbolo che inizierà a portare al braccio, non sarà la solita fascia da capitano, ma la fascia Soka Gakkai, il “Vincere Sempre” buddhista.

Quel cimelio cucito a mano inizialmente era semplicemente legato al braccio con i due lembi che pendevano liberi, ondeggiando ad ogni sua finta, ad ogni suo dribbling, ad ogni movimento leggiadro che annichiliva gli avversari con grazia e intuizione estetica. Seguiva lo stesso andare quel suo codino che lo personificò talmente tanto da essere ribattezzato “Il divin codino”. Tale era, in effetti, anche negli anni a venire. Nonostante la sfortuna continuasse a perseguitarlo e nonostante gli allenatori non sopportassero lo sconfinato amore dei tifosi nei suoi confronti lui continuava a dipingere calcio. Come quando il 1° aprile del 2001 un giovanissimo Andrea Pirlo effettua un lancio in verticale verso l’area della Juventus. Si giocava al Comunale di Torino e i bianconeri conducevano per 1-0 grazie al gol di Zambrotta. All’86esimo il centrocampista bresciano effettua un passaggio alto e abbastanza leggibile per il portiere juventino van der Sar; l’impressione è che quella palla non sarebbe potuta essere giocata dal numero 10 del Brescia che, nel frattempo, continuava la sua corsa offensiva. Con un occhio guardava quel pallone arrivare sopra di lui e con l’altro intuiva il movimento del numero uno bianconero. Impossibile, come può addomesticare quella palla senza farsela rubare? Non appena cercherà di stopparla il gigante olandese sarà sopra di lui e farà sua la sfera. Poi accade quello che la logica e la razionalità non possono prevedere perché limitate dalle regole entro cui vivono; il genio, che invece se ne frega dei limiti, interviene immaginando qualcosa che solo lui può vedere: il capitano del Brescia, con la sua fascia colorata al braccio, rallenta la sua corsa quel tanto che basta per far cadere la sfera davanti a lui. A quel punto il suo piede destro, capace di rendere visibile l’intuito dell’artista, addomestica la palla fintando allo stesso tempo il portiere avversario. L’impossibile è stato reso possibile e uno dei gol più belli della storia del calcio realizzato.

Ne segnerà tanti altri nel corso della sua carriera, la maggior parte bellissimi, di quei gol che non ti stanchi mai di vedere e rivedere. Tanti segnati con quella fascia al braccio, quel pezzo di stoffa blu, gialla e rossa che rappresentano i colori del buddhismo: la striscia con il blu reclama la compassione verso tutti gli esseri e lo spirito di pace, quella gialla è l’elogio della via di mezzo secondo l’insegnamento del Buddha Shakyamuni, lontano da qualsiasi estremo, quella rossa sono i doni della pratica spirituale e meditativa. Gli ideogrammi ricamati su di essa sono appunto la parola Soka Gakkai, la vittoria che poi è quella dell’animo prima ancora che quella sul campo.

Poi, sedici anni fa, mentre gli ottanta mila di San Siro si sommavano ai milioni di tifosi in tutto il mondo uniti in un pianto di disperazione sportiva, mentre Paolo Maldini rendeva omaggio alla carriera di uno dei più grandi di questo sport, Roberto Baggio diveniva finalmente consapevole di quanto fosse amato, sfilando per l’ultima volta la sua fascia da capitano, unica, come lui.

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