Un simbolo, inteso in senso figurato, è un elemento che evoca nella mente di chi lo vede un significato diverso da quello che realmente rappresenta. Esso può essere qualunque cosa: un gesto, una persona, un oggetto, un animale, un numero. Proprio i numeri, alcuni di essi, si son da sempre arricchiti di altri significati oltre a quello legato al loro utilizzo da parte della matematica. Senza scomodare Maya, Inca e antichi greci, anche al giorno d’oggi alcuni numeri hanno assunto valenze che li hanno portati a diventare dei veri e propri simboli. In questo, lo sport ha contribuito tantissimo. Basti pensare al numero 1 che è legato indissolubilmente al ruolo del portiere. Un “vero numero 1” è colui il quale non ha paura di nulla e di nessuno, coraggioso, quasi folle per “deformazione professionale”, allo stesso modo solitario. Se invece sei un 9, sei sicuramente un bomber fuori e dentro il campo. Poi ci sono alcuni numeri divenuti simboli grazie al campione che li ha indossati, basti pensare al 23 di Michael Jordan. Dagli anni 80 in poi, non c’era ragazzo al mondo che, amando il basket, non ambisse ad avere quel numero dietro la canotta. Anche semplicemente scritto con un pennarello dietro una banalissima t-shirt bianca. La ruota infinita dei numeri gira e ognuno di essi può divenire simbolo.

Lo sport, come detto, ha contribuito tantissimo in questa evoluzione simbolica dei numeri ed il calcio ha dato il contributo più sostanzioso in tal senso. Un giocatore in particolare ha elevato quelle due cifre dietro la sua maglietta a elemento ricco di aspetti caratterizzanti: Diego Armando Maradona. Non si può nominare Maradona senza associarlo al suo numero, il 10. El Pibe de Oro è forse una delle persone su questa terra che più di tutte possono trovare riscontro e corrispondenza in un simbolo. Un simbolo che lui per primo, appunto, ha contribuito a rendere tale, ma che, adesso, è andato oltre i suoi stessi padri putativi. Ovviamente oltre a Diego Maradona, ce ne sono tanti altri calciatori che hanno fatto crescere il mito del Diez; basti pensare a Pelè e Sivori ancor prima di Maradona, Platini, gli italiani Baggio, Del Piero e Totti e, ovviamente, Lionel Messi. Tutti questi campioni hanno avuto dei tratti distintivi molto chiari nel loro modo di trattare la palla accarezzandola con classe ed eleganza. Proprio questo stile di interpretare il calcio, così vicino all’arte, ha portato sempre maggior spessore a quel numero che indossavano (o continuano a indossare come nel caso di Messi) dietro le loro magliette. La loro tecnica di base non era qualcosa di costruito nei settori giovanili, loro toccavano la palla come Mozart i tasti del pianoforte: per puro istinto. Un pallone che, il manuale di calcio alla pagina 7, avrebbe previsto che fosse calciato di collo interno con la caviglia rigida, loro lo avrebbero calciato d’esterno, o di mezzo interno, o di collo piede, insomma in una maniera che solo la loro natura li avrebbe spinti a fare. Nessuna regola scritta e studiata avrebbe mai incatenato e carcerato il loro talento. Un dieci vede traiettorie di passaggio laddove gli altri vedono muri posti dai loro avversari. Al numero 10 i compagni si affidano quando la palla scotta troppo e serve qualcuno che in campo si prenda la responsabilità di sovvertire l’andamento della gara. Sono quei giocatori che riescono, perché loro possono, a conciliare la concretezza con l’estetica. Basti pensare al gol di Del Piero contro la Fiorentina, un gol tanto bello quanto pesante ai fini del risultato della partita e dell’intera stagione. Oppure il gol di Roberto Baggio contro la Juve ai tempi del Brescia, una rete che trasuda poesia. Un lancio partito dai piedi di un altro artista, come ha dimostrato di essere Andrea Pirlo, per Roberto Baggio che correva verso il portiere della Juventus. Quella palla alta, per qualsiasi altro giocatore, avrebbe richiesto soluzioni diverse da quella inventata dal Divin Codino: aggancio al volo della sfera che nel frattempo l’aveva superato e che Baggio aveva addormentato per terra dribblando al tempo stesso il portiere. Non è calcio, non è allenamento, non è schemi, non è qualcosa che una mente può studiare e preparare a tavolino, ma, piuttosto, qualcosa di divino che va oltre la ragione, riconducibile solamente all’intuito e alla genialità.

Non è solo il calcio a poter vantare numeri 10. Anche negli altri sport, seppur con numeri diversi, quella genialità si manifesta. Basti pensare a Steve Nash, ex giocatore di basket NBA. Un autentico visionario capace di trovare passaggi impensabili e spettacolari per i suoi compagni. Perché un 10, al contrario di un 9, si mette a disposizione della squadra; si sacrifica per il bene collettivo; si carica di responsabilità per aiutare i suoi compagni. Un numero 10 non mette la gloria personale davanti al bene del gruppo. Queste sue caratteristiche fanno sì che il simbolo vada oltre i suoi padri e l’ambito nel quale è nato per identificare persone che si trovano in altri ambiti. Ecco quindi che l’attore scomparso Robin Williams, Will Smith, il rapper Eminem (a modo suo), il padre di Microsoft Bill Gates e tanti altri, hanno tatuato dietro la schiena quel numero. Perché il Diez è chi ha il coraggio di vivere la vita che ha sognato di vivere, credendo nel talento innato che ha ricevuto in dono. Il numero 10 porta in dote quell’intuito nel vedere soluzioni diverse che consentono di arrivare al bersaglio senza passare da labirinti codificati. I muri di quei labirinti vengono trapassati da un pallonetto di Totti, da un no-look di Nash, da un “capitano o mio capitano” di Robin Williams. In fondo, il 10 secondo Pitagora, è il numero perfetto e costituiva il cosiddetto Tetraktys che a sua volta è la somma della successione dei primi quattro numeri e rappresentava i quattro principi cosmogonici (terra, fuoco, aria, acqua).

Quel numero, divenuto simbolo, è una scelta consapevole per affrontare la strada che abbiamo davanti a noi.

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